giovedì 27 dicembre 2012

GIUSEPPE BERTO


CASO RARO DI EMIGRAZIONE INTELLETTUALE ALLA ROVESCIA





Giuseppe Berto nacque a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso il 27 dicembre 1914. Morì di cancro a Roma il 1º novembre 1978. È seppellito nel cimitero di Ricadi (VV). L’autore de Il cielo rosso e de Il male oscuro, dopo una vita avventurosa, scoprì la sua seconda patria in Calabria.
Berto si interrogò in più occasioni sull’inclinazione dei calabresi a deturpare la bellezza della loro terra, dei loro paesi. L’osservazione più lucida e oggettiva mi sembra questa:
 «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili…
Temo che salvare quanto rimane del paesaggio e dell’antica civiltà calabrese sia impresa disperata. Infatti c’è da lottare contro forze soverchianti. E non si tratta soltanto di scarso senso civico, per cui il calabrese è prepotentemente portato ad anteporre il bene proprio al bene comune (succede quasi ovunque).
Né soltanto di ignoranza, per cui succede che molti di coloro che deturpano paesaggi con costruzioni orribili sono intimamente convinti di abbellirlo con capolavori architettonici. Contro queste forze, ancorché prepotenti, si potrebbe combattere.
Il guaio più grosso è che il calabrese è mosso da un irrefrenabile stimolo di autodistruzione che, per quanto riguarda l’ecologia, ha le sue radici in un senso di inferiorità collettiva. I calabresi sono i primi a non credere alla bellezza e all'altezza della loro civiltà, che è una civiltà contadina. Per essi la civiltà contadina è simbolo di miseria, di scarso cibo e di molte malattie, di disprezzo, vero o supposto, da parte di altre popolazioni economicamente e tecnicamente più progredite.
E’ comprensibile, quindi, che essi vogliano cancellare le vestigia di tale civiltà – e anche un paesaggio vergine appartiene alla civiltà contadina.
Ora, la civiltà contadina era sì miseria… ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile…
I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».

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